da un'intervista a Scott Jurek
D: Il tuo tempo alla maratona di Seattle (2:53:11) è stato eccezionale, in particolare per un'ultrarunner. Di solito combini competizioni su strada e fuori? Quali preferisci?
R: Grazie, mi sono sorpresa anch'io. Ma generalmente non combino trail e strada. Seattle è stata la mia seconda gara su strada in circa 10 anni. Ho deciso di correrla d'impulso. I miei genitori vivono a Seattle, ed era un buon modo per bruciare tutta la torta di zucca che ho mangiato per il giorno del ringraziamento, visto che la maratona è la domenica dopo. Decisamente preferisco le distanze più lunghe, mi piacciono i sentieri. In futuro potrei fare una maratona su strada qua e là, giusto per lavorare sulla velocità.
(Qualche anno dopo, e alcuni giorni fa, Kami, oggi quarantaduenne, ha vinto la maratona di Portland siglando il record personale di 2h45'24").
Così, tanto per ricordarci di dove siamo nel mondo. Di certo io sono lontanto da un posto dove si improvvisa una maratona su strada sotto le tre ore per smaltire della torta di zucca.
Non mi piace la zucca.
L'idea è di dar voce a quello che la corsa provoca, pensieri, emozioni, con un formato stile libro, che invita alla collezione e alla rilettura nei momenti in cui si ha bisogno di una spinta o di un pacca sulla spalla.
Molte storie quindi, e niente tecnica o cronache generiche di gare. Non perché non siano importanti ma perché già ne se ne parla diffusamente in altre riviste specializzate.
E' un bimestrale distribuito solo in abbonamento. Il primo numero è stato presentato in occasione del UTMB. Quelli che lo hanno letto mi sembra siano rimasti contenti. Il secondo verrà presentato alla Maratona di Venezia.
Ho messo anche il link quì a fianco per gli approfondimenti.
Avvertenza: vi ho scritto un articolo e conosco molte delle persone coinvolte nella realizzazione della rivista.
Quanto sopra potrebbe quindi essere letto come un annuncio interessato o come una garanzia di bontà del prodotto.
Fate voi, mi fido
Il filmato che segue no, invece. Commento audio, come si diceva, da pelle d'oca.
Dal commento di Ryan Hall alla sua prestazione nella maratona Olimpica di Pechino.
La domenica mattina ha corso la 50km, vincendo, in 4h16', ha fatto due chiacchiere all'arrivo, si è cambiato, ed è ripartito alla volta di casa. Sempre in bici.
Nel giugno del 2004 il negozio The North Face di San Francisco organizzò una serata con la presenza di Dean Karnazes.
Allora era conosciuto principalmente nell'ambiente dell'ultramaratona dove aveva fatto notare la sua presenza per uscite lunghe, anche più lunghe delle "normali" 100miglia.
Era gratis, bastava presentarsi, ti davano anche un buono sconto del 10%. Ci presentammo in una trentina, inclusi il titolare del negozio e qualche commesso.
Dean ci parlò della sua storia e ci mostro un breve documentario. Seguì un piccolo rinfresco a base di stuzzichini giapponesi.
Io stavo inseguendo su Amazon.com il suo libro (affascinato dal titolo "confessions of an all night runner", poi più prosaicamente modificato in "Ultramarathon man") che era dato per pronto ad uscire.
Approfittai di uno dei molti momenti di calma e gli chiesi quanto mancava. Mi disse che l'aveva appena iniziato e quindi non prevedeva che sarebbe uscito a breve. Mi misi il cuore in pace, e mi sembra che arrivò nelle librerie nella primavera successiva. Da lì alle liste dei Best seller, e nel giro di un paio d'anni ecco che Karnazes diventa un personaggio super conosciuto. Nel 2006 corre 50 maratone in 50 Stati in 50 giorni e diventa veramente di domino pubblico.
Dell'evento viene fatto un film, che il 31 luglio è uscito in vari cinema sparsi per gli Stati Uniti.
Vista la vicinanza sono andato alla proiezione di San Francisco, che essendo anche la città in cui Karnazes vive, più o meno, lo ha visto presente per un breve discorso prima del film.
Rispetto al 2004 qualcosa è cambiato, ci siamo trovati in un cinema gremito, nonostante fosse a pagamento, e i biglietti erano esauriti già da una settimana.
Il pubblico quindi è cambiato, mentre Karnazes è rimasto la persona che era nel 2004, uno che ha messo nel carnet fino a 500km in una sola seduta, ma che se vai lì e gli dici che oggi hai corso due chilometri ti guarda con ammirazione genuina, e si congratula con l'espressione meravigliata di chi pensi che un chilometro sia già una distanza considerevole.
Attualmente il suo scopo è di cercare di ispirare, soprattutto i giovani, all'attività fisica. E direi che ci sta riuscendo, il pubblico era eterogeneo e formato anche da gente che si era alzata da poco dal divano, semplicemente perché appassionati da questo personaggio, e non più solo da quattro gatti segnati dalle rughe polverose di tanti chilometri corsi in solitudine.
Il film in sé mi preoccupava un po'.
La maratona, si sa, non è lo sport più televisivo, e quindi non sapevo come avrebbero gestito la documentazione dell'evento.
In realtà tanto di cappello anche agli autori. Il filo conduttore è l'impresa di Dean, ma il regista ci ha presentato angoli inconsueti d'America, il team che ha lavorato per rendere l'impresa possibile, e le centinaia di storie di persone normali che hanno voluto correre anche solo qualche metro in compagnia di Karnazes. Forse per poter dire 'io c'ero', forse per partire verso una destinazione diversa nella propria vita.
Il tutto montato con brio, in stile road trip, alternando paesaggi, corse, dettagli, ritmi e dietro le quinte.
Ci sono stati molti momenti emozionanti, più volte mi sono trovato con l'occhio umido.
In particolare quando ha spinto sul Golden Gate Bridge la carrozzina di un suo amico, compagno di tante corse, colpito da una malattia degenertiva. Prima della proiezione ci aveva detto dell'episodio, e che sperava che il suo amico potesse vedere il film. Purtroppo è mancato proprio pochi giorni fa.
I momenti commoventi si alternano a quelli divertenti e ai siparietti improvvisati.
All'uscita, non importa l'ora, viene voglia di partire per una corsa.
La vita di questi eroi dei nostri giorni viene immaginata come monodimensionale: allenamento, alimentazione e riposo, ancora allenamento e così via.
E a leggere dei solitari inverni di Pietro Mennea in una camera d'albergo a Formia , l'idea di fare l'atleta olimpico improvvisamente diventa un po' meno affascinante.
Rimane comunque la scusa, per noi "normali", con lavori e famiglie a tempo pieno, che magari potremmo essere anche noi lì se non dovessimo sottostare ai doveri sociali e della sopravvivenza.
Poi leggi di Magdalena Lewy Boulet.
Ai trials olimpici di maratona di quest'anno, corsi a Boston, è partita in testa, nessuno sapeva, o ricordava, chi fosse.
Forse perché era un signor, o meglio una signora, nessuno.
Nel 2004 aveva fallito la qualificazione per poco, quinta, poi era piombata negli abissi della fascite plantare. Con un futuro agonistico incerto, se non da accantonare, si è rimboccata le maniche e ha affrontato un lavoro a tempo pieno, e, soprattutto, un figlio a tempo pieno. Aiutando anche di quando in quando nel negozio di cui il marito è compropietario.
Per guadagnare tempo un bel po' di allenamenti se li è fatti in casa, sul treadmill, mentre il figlioletto prima giocava, e poi, sempre più cosciente e coinvolto, la incitava.
Un fondo medio in una stanza, con un unico tifoso, piccolo ma enorme.
E, sempre centellinando le risorse, si era qualificata con un insignificante, a livello di aspiranti olimpionici, 2h42'. Non c'è da stupirsi che il gruppetto delle inseguitrici, tra cui la primadonna della maratona USA, Deena Kastor, non sapesse chi fosse.
E' arrivata ad avere un vantaggio di due minuti, centoventi secondi, non un granché da correre col terrore di arrivare quarti, che negli USA significa essere fuori dalla squadra, e col ricordo del calo finale, nei trials del 2004, quando gli ultimi chilometri la videro svuotata e impotente di fronte al rientro delle avversarie.
Questa volta però aveva risorse nuove, paradossalmente date proprio da quella vita intensa, ma equilibrata, e fuori dai canoni degli atleti, più vicina a chi deve affidarsi all'agenda per incastrare, con ambiziosi equilibri, l'allenamento come una delle attività, neanche la principale, nella giornata.
Deena ha rimontato, e l'ha passata, relegandola al secondo posto in quella gara, ma al primo nel mio cuore, a questo punto.
E a Pechino ci andrà, come nelle favole, grazie all'impegno e ad una volontà non comuni. Come nelle favole all'arrivo dei trials gli si è avvicinata anche la responsabile Saucony, per averla come testimone di valori e sentimenti che tutti vorrebbero avere. Probabilmente non vincerà le Olimpiadi ma di certo ha ispirato ed ispirerà molti di quelli che ne conosceranno la storia.
Aggiornamento del 21/08/2008: Magdalena spiega cosa è successo alle Olimpiadi
Dati e storia tratti dall'articolo "Back on Track" di Kibby Kleiman, pubblicato su East Bay Express. Foto dal sito Transports.
Mark Wetmore, allenatore delle squadre di Cross Country della Colorado University
Dal libro Running With The Buffaloes, di Chris Leary
Chi abbia letto qualche libro di Trabucchi (vedi riferimenti bibliografici) sa anche che c'è un dialogo tra corpo e mente in cui entrambi si influenzano a vicenda.
Questo significa che se il corpo dice che è stanco, e la mente gli risponde che è vero, il corpo si sentirà ancora più stanco, forte di questa validazione.
E' però anche vero il contrario, se uno dei due (corpo e mente) fa finta che non sia vero, l'altro ci casca e reagisce ristrutturando le sue sensazioni, arrivando a stravolgimenti miracolosi della situazione.
Prima di andare sulla possibilità di influire volontariamente sulla situazione, vediamo tre esempi di soluzione "involontaria" di una crisi, e pensate se non vi sia mai capitato.
State correndo, esausti per aver forzato ai limiti delle vostre possibilità. Il mondo vi appare grigio e lattiginoso, trascinate i piedi e avete rischiato di inciampare, o l'avete fatto, su un sasso neanche tanto grande, e da lontano vedete comparire:
1) i vostri amici che vi incitano a gran voce applaudendo;
2) un fotografo dell'organizzazione che immortalerà la vostra condizione per i posteri;
3) un pastore tedesco che pare non troppo felice del vostro arrivo.
Ditemi che tutte le vostre miserie legate alla stanchezza non scompaiono per un tempo più o meno lungo, senza che le vostre condizioni fisiche siano effettivamente cambiate.
Una volta coscienti di questo doppio filo che lega corpo e mente vediamo come si può influenzare questo dialogo.
Per prima cosa io direi di fare una rapida valutazione dei motivi della crisi, che possono essere seri o meno.
Per esempio avere corso le ultime due ore in pieno sole, senza bere una goccia d'acqua, e sentire una certa secchezza delle fauci lo potremo per comodità definire un motivo serio. Se al settimo chilometro di un diecimila avete un momento di difficoltà direi che potremmo definirne il motivo come meno serio.
Nel caso di crisi causate da problemi di tipo metabolico, fame, sete, squilibrio di sali, è opportuno comunque agire sulle cause principali perché ogni trucco mentale è destinato a durare poco (ma comunque potrebbe funzionare per un po').
Ma vediamo quali potrebbero essere queste tattiche.
Una delle mie preferite e quella di togliermi l'onere della decisione. Quel tarlo che, specie se sei stanco, ti consuma energie a gratis, che potrebbero essere meglio spese.
"Mmmh, fa freddo, tira vento, un tempaccio per uscire".
Questa è una crisi preventiva, priva di basi metaboliche, che ho dovuto affrontare parecchie volte. Beh, io esco comunque dieci minuti, e se poi sto proprio male torno dentro. Una volta fuori e avviati in genere si continua ad andare.
Nelle gare lunghe il ritiro non lo prendo in considerazione, a meno di infortuni che possano crearmi problemi a lungo termine. Non ho la pressione di dover pensare "mi fermo o no?" e quindi posso rilassarmi e pensare ad avanzare.
Domenica, dopo un terzo di gara, in piena crisi, l'idea di ritirarmi mi aveva onestamente sfiorato.
Però non avevo problemi fisici, e ho prima pensato che avrei dovuto telefonare e spiegare a tutti che non ce l'avevo fatta.
Un lavoraccio, mi son detto, non voglio farlo, né voglio rendere inutile il sacrificio di chi è venuto a sostenermi.
E poi mi è venuta in mente la frase di Livio Tretto, quando gli dissero che il suo allenatore pensava non ce l'avrebbe fatta a finire gli ultimi 15km di una 100:
"Si è vero...forse...ma avrebbero dovuto spararmi nella schiena..."
Così ho lasciato la decisione ai direttori di gara, se non arrivavo ai cancelli in tempo era giusto che mi abbattessero.
Loro.
Io sarei andato avanti sino ad allora.
Una volta tolto l'onere della decisione di fermarsi rimane comunque il problema di andare avanti.
Una prima tattica potrebbe essere di tipo fisico: accorciare il passo, alleggerire l'appoggio, sistemare la postura (in pratica quello che facciamo quando vediamo il fotografo in lontananza). Da provare, non richiede sforzi di motivazione e ci fa sentire subito meglio. Uno di quei casi in cui la forma equivale a sostanza.
Un'altra invece di tipo mentale. Sessanta chilometri sono una distanza enorme, in fondo anche dieci. Se ci poniamo l'obiettivo di arrivare solo fino al prossimo cartello chilometrico ecco che l'impresa sembra percorribile. Uno dei miei riferimenti in questo campo era arrivata a porsi l'obiettivo di contare fino a 100, e poi vedere. Nel caso di gare in montagna lo scollinamento è sempre un bel posto dove porre il proprio traguardo parziale.
Una delle crisi che a me stava proprio antipatica era quella del settimo chilometro sulle gare di dieci. Non aveva motivazioni serie per me e non la voleva degnare neanche di trucchi, la battevo a viso aperto sistemando la postura e accelerando. Questione di qualche centinaio di metri e ci si poteva rilassare sull'andatura di gara che a quel punto sembrava pure facile.
C'è poi chi usa i mantra da ripetersi in modo da entrare in una specie di trance. Io non è che ci riesca. Quello di Sarah Reinertsen è "hot shower, cold beer, straight ahead". Che suona più o meno "doccia calda, birra fredda, dritto avanti".
E poi ce ne sono altre, ma non oggi. A livello generale è importante acquisire la consapevolezza che fatica e difficoltà fanno parte della corsa, non come avversari ma come parte integrante del processo di apprendimento. La fatica va quindi accettata, ma su questo ci sto ancora lavorando.
In estrema sintesi, la cosa più importante da ricordare è che
se pensiamo di essere stanchi in effetti lo saremo, e viceversa.
Quando era in ospedale mi disse con una punta di orgoglio: "il Professore mi ha detto che nonostante sia la più anziana (cosa peraltro non difficile alla sua età ndr) sono la più in forma della camerata".
A dispetto di questo non si è mai veramente ripresa dall'incidente. L'anca è stata sistemata alla meglio ma ha perso in mobilità e la nonna non si è più fidata a camminare da sola.
Ha inanellato comunque un discreto numero di giri in garage, con l'aiuto di un girello, negli ultimi tempi sempre più faticosamente.
La settimana scorsa ha dovuto subire un piccolo intervento ad una vena dove il sangue si era fermato. Purtroppo, non muovendosi tanto la circolazione è quella che è, e l'età non aiuta.
Ieri sera era tutta eccitata perché le avevano detto che oggi sarebbe ritornata finalmente a casa e mi ha colpito come la semplice percezione di un obiettivo l'avesse trasformata, nella postura e nello spirito, rispetto anche alle giornate spese a casa in attesa del mero scorrere del tempo. La mente è uno strumento potente.
Mi ha aggiornato quasi subito, con aria seria, sulle comunicazioni dei medici: "purtroppo ho una cattiva circolazione del sangue perché non faccio molto movimento. Il Professore mi ha detto che devo camminare tanto. Correre meglio di no, perché potrei danneggiare la gamba, ma camminare sì, e tanto."
E allora,
solo un genio, oppure un demente, può pensare di pubblicizzare un paio di scarpe elogiando il fatto che è meglio andare scalzi.
Siccome le scarpe in questione si vendono come il pane è lecito accreditare il suddetto della prima definizione.
grazie a barefoot ted per la segnalazione.
Aggiornamento:
siccome alla fine poi le ho comprate, le free, mi vien da dire che i personaggi all'ufficio marketing della Nike sono ancora più bravi di quello che pensassi.
Perché se l'avampiede gode di una libertà e flessibilità poche volte provate dentro una calzatura, il tallone è abbastanza sollevato da terra, in posizione che poco ha a che vedere con il piede nudo.
Di certo la libertà è superiore ad una scarpa media, ed è un prodotto ovviamente destinato a finire nella collezione di chi possiede scarpe, non certo di chi viaggia felice a piedi nudi.
Ma, forse, se si vuole iniziare una rivoluzione, è meglio partire da qualcosa di simile a quello che già esiste ed ha successo.
Sembra che nel passato fossero piuttosto piccoli e vivessero sulla terra ferma.
Per esigenze di difesa pare che, nel corso dell'evoluzione, si siano spostati in acqua e abbiano acquisito la ragguardevole stazza che li caratterizza.
A dispetto della nuova situazione, però, hanno mantenuto l'atteggiamento apprensivo e piuttosto incline alla violenza che li caratterizzava quando erano delle prede appetibili e di facile conquista.
Questo, oltre a mantenerli piuttosto in basso nella classifica dei potenziali animali da compagnia, li ha portati più volte sulle pagine delle cronache per assalti ad umani che, per scelta o distrazione, hanno invaso il loro spazio sociale.
Mi ha colpito la storia di un tizio che è riuscito ad evadere dalle attenzioni di un ippopotamo trascinandosi in qualche modo a riva dopo essere stato sbatacchiato ben bene.
Al momento del check up su come era andata ha controllato il braccio sinistro, che non sentiva più, ed in effetti mancava all'appello. "Oh, oh, non sento neanche il destro" e si è girato con esitazione per scoprire con sollievo che era ancora li. Ha provato a muovere le dita, che hanno reagito allo stimolo, e si è detto "fiù, meno male, ho perso solo un braccio".
Dal punto di vista del mezzofondo e del fondo un atteggiamento come quello dell'umano citato senz'altro aiuta meglio a superare i momenti difficili (che, immancabilmente, si presentano) rispetto a quello dell'ippopotamo rimasto fermo su schemi mentali che non rispecchiano la realtà dei fatti.
Per quanto riguarda invece la velocità non ci si può esimere dal segnalare che un ippopotamo medio può raggiungere anche velocità vicine ai 50 km/h su brevi distanze.
Su questo non avevo mai avuto dubbi, ma essendo anche un pigro da competizione in genere tendo a correre nelle piatte campagne intorno a casa.
Con poche decine di minuti di macchina posso invece recarmi in collina.
Nello specifico di oggi a Valmareno (249slm) e correre fino a Praderadego (914 slm) su una salita continua in una strada chiusa al traffico. Il ritorno invece l'ho fatto parte su sentiero tecnico e parte su sterrato facile per un totale di circa 2h09'.
A parte che sembrava di essere fuori dal mondo civilizzato, il che non è male per qualche ora, direi molto bene per un sistema che domenica aveva fatica a mettersi in moto per 11km praticamente in pianura.
La motivazione ha le sue vie.
Una spiegazione eloquente di cosa intendesse quando affermava che per vincere quando c'era lui in gara bisognava sanguinare:
La premessa mi trova concorde sul fascino di vedere come gli atleti di vertice si allenano. Ricordo ancora il libricino di Mennea, che mi lasciò una grande ammirazione per i carichi di lavoro che riusciva a sopportare, e una grande tristezza per gli inverni solitari che trascorreva a Formia.
Leggere come grandi campioni, o anche semplici esseri umani, affrontano le difficoltà o si allenano a farlo, in modo più o meno organizzato, è infatti una delle mie grandi passioni.
E vedere i lavori del Gebre su 20 o più chilometri, a ritmi a cui personalmente non reggerei più di cento metri, lascia a bocca spalancata.
E desta ulteriore stima il fatto che, con la grande esperienza accumulata, può gestire a sensazione, ma in modo molto preciso, anche carichi di lavoro notevoli.
E ti vien voglia di uscire a correre, e quando sei fuori ti sembra di viaggiare leggero a quei ritmi (che poi siano reali o solo immaginati poco importa).
Tanti angoli diversi o, forse, un solo cerchio ed una perenne ricerca.
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"In un mondo che dice 'sei troppo stanco' e 'non hai tempo' e 'solo i soldi contano', la corsa ci rende Fratelli e Sorelle della strada.
Ecco perché correre non è solo qualcosa che riguarda il bruciare calorie.
Ecco perché la corsa è qualcosa di più di un semplice sfogo per lo stress.
Se la salute è il vostro obiettivo principale, potete raggiungerlo su una cyclette guardando le repliche di Fantasilandia .
Correre è 'reale' e relativamente semplice - ma non è facile.
E' una sfida.
Richiede lavoro.
Richiede l'assunzione di un impegno.
Dovete scendere dal letto, uscire dalla porta e scendere in strada.
Rischiate di prendere freddo, umidità o troppo caldo.
Potrebbe essere che dobbiate colpire sul naso qualche cane ultrazelante
oppure qualche pirata della strada sul cofano,
e che vi capiti più volte.
E, naturalmente, dovete cominciare facendo la vostra prima vera corsa."
(Mark Will-Weber, "The quotable runner")
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"Forse il prezzo per salire in cima all'Everest si deve calcolare in modo diverso. Sembra che sempre più gente sia disposta a pagare in contanti, ma non tutti sono disposti a pagare di persona con lo sforzo fisico necessario per allenarsi gradualmente, corpo e mente, scalando cime più basse, muovendosi dalle difficoltà più semplici a quelle più complesse, e arrivare solo alla fine a scalare gli ottomila. Una preparazione di questo tipo forse non è appagante, ma è necessaria."
(Anatolij Bukreev - non è detto che la frase si applichi solo all'Everest, ndr)
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"Una gara è un'opera d'arte che le persone possono osservare, ed esserne colpite, in tanti modi quanti sono in grado di comprendere"
(Steve Prefontaine)
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"Correre è fondamentalmente un assurdo passatempo attraverso il quale sfinirsi. Ma se riuscirete a trovare un significato in esso, riuscirete a trovare un significato in un altro assurdo passatempo: la vita."
(Bill Bowerman, allenatore)
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"Ero interamente assorbita nei miei pensieri. Pensieri pratici, come 'mettere
mettere un piede davanti all'altro' e pensieri più metafisici, tipo 'cedere
alla stanchezza oppure accettarla come fatto naturale e anzi vedere nel
superamento psicologico della stanchezza il *vero* obiettivo della
competizione.' "
(Amy Stilson Pogliano al suo esordio nella Avon Running)
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"Un sacco di gente gareggia per vedere chi è il più veloce. Io corro per vedere chi ha più fegato, chi può punire sé stesso con un ritmo da sfin imento , e poi, alla fine, punirsi ulteriormente.
Nessuno vincerà un 5000 dopo aver corso 3 chilometri facili. Non se ci sono io. Se perdo forzando il ritmo per tutta la gara, almeno posso vivere con me stesso"
(Steve Prefontaine)
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"Siamo sempre i Paul Tergat di qualcuno e i tapascioni di qualcun altro".
Volevo dire che se mi gaso troppo mi basti pensare che quello che io faccio a stento in un mille, molti lo fanno 42 volte di fila; ugualmente, ce ne sono tanti che vanno piu' piano di me, dunque non mi devo buttare mai troppo giu'.
Credo che in questa affermazione tutti ci possiamo riconoscere almeno un po'.
(Andrea Busato)
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"Sono il tipico corridore "stesso tempo - stesso luogo". Corro gli stessi percorsi, di solito alla stessa ora.
La ripetitività di questa routine mi dà un senso di tranquillità. Ma le corse in sé non sembrano "repliche televisive".
Sono diverse le une dalle altre tanto quanto i singoli fiocchi di neve o le impronte digitali. Non ce ne possono essere due uguali.
Il tempo atmosferico cambia di giorno in giorno e la luce di stagione in stagione. I livelli di motivazione ed energia d ettano i cambiamenti di andatura. Le persone sorpassate, i luoghi visti e le cose pensate: tutto cambia in ogni corsa.
Ogni corsa unisce la consuetudine della routine con la sorpresa del nuovo giorno. Questo insieme non lascia spazio alla noia.
(Joe Henderson, "Correre al meglio")