2010

Per chi suona la campanella





Nel tempo ho sviluppato una mia routine per la prevenzione degli infortuni.

Qualsiasi dolore localizzato, che duri più di qualche decina di secondi, viene trattato sul posto. Vale a dire che mi metto a camminare per una cinquantina di metri e poi riprendo.

Per buona parte dei fastidi è terapia sufficiente.

In qualche caso, sia l’età, o qualche altro fattore di stress, la cosa non si risolve, o magari è presente per motivi estranei alla corsa, per cui posso anche rinunciare del tutto all’uscita e fare trattamenti localizzati in relazione all’entità del danno (dalla palla da tennis per l’automassaggio locale, al fisioterapista per le cose che non riesco a risolvere).

In tutti i casi ho notato che l’infortunio tende a fare il suo corso, che ha uno sviluppo classico a campana, come nel disegnetto sopra. E non importa quanto presto lo prendi, tende a percorrere il suo tragitto, aumentando fino al picco, anche se non stai facendo nulla in attesa che passi, per poi diminuire gradualmente.

Ecco, tutto questo per dire che a volte serve quell’attimo di pazienza, ed astensione dal panico, quando, nonostante il riposo, il problema sembra non passare.

Ed ancora prima, che rinunciare ad un allenamento può essere una decisione che salva dal saltarne molti altri in seguito.

Ho anche notato che una volta superato il picco si può riprendere pian piano anche prima che la curva sia discesa a livello iniziale, salvo ovviamente fermarsi se si nota che la linea cambia orientamento e riprende a salire.

NB: tutto questo in termini di esperienza personale, che nessuno può considerare sostituto di consiglio professionale da parte di persona abilitata all’uopo. Cosa che io non sono.

New Balance, modello sconosciuto, circa 1980

New Balance, Model Unknown, Circa 1980 (extended view)

E visto che siamo sulla strada dei ricordi ci mettiamo anche queste, che risalgono alla fine degli anni settanta, inizio anni ottanta.

Mi furono regalate dal mio allenatore, che a sua volta le aveva ricevute da qualcuno, ma non siamo riusciti a ricostruire chi. Non era infrequente ai Meeting di Atletica chiedere del materiale agli atleti sponsorizzati, che ne avevano sempre oltre il necessario.

In ogni caso, New Balance, made in USA, che non si vede più molto spesso in quel mercato. Nate in un priodo in cui le scarpe da corsa erano solo scarpe che servivano per correre, e non si sapeva nulla di iperpronazione, supporto o minimalismo.

Essendo un regalo non volevo rovinarle e ci ho corso solo poche volte. Me le ricordo reattive con il giusto tocco di ammortizzazione.

Si stanno lentamente dissolvendo, ma ogni tanto le recupero e ci dò un’occhiata. Portano alla luce bei ricordi.

La Staffetta

Relay

Ci sono scarpe che hanno grandi storie da raccontare, conquiste, una ‘prima’ gara, una gara tosta, una memorabile.

Alcune non ne hanno, ma non sono per questo meno importanti.

Quelle Saucony Ride 2 mi sono state a fianco, per modo di dire, in un periodo di tendini doloranti e morale in discesa. Mai si sono lamentate per il ritmo lento o le frequenti soste. Hanno fatto semplicemente il loro lavoro, a malapena si notavano, ma era l’unico paio che potevo indossare senza soffrire.

Adesso sono stanche, pronte ad essere rimpiazzate dalle loro gemelle, che sanno di dover portare avanti una eredità di supporto e confort.

Gare più veloci arriveranno, si spera, grazie anche alla loro accettazione del ruolo avuto nella mia storia.

Avere il polso della situazione

il polso della situazione

Fermo restando che uno può correre più o meno senza nulla, fatti salvi i limiti legali della decenza e quelli fisici della preparazione, questi sono due utensili che nelle mie corse di questi tempi non mancano mai.

Un
Garmin 110, che è tra le versioni più semplici della gamma, ti dà la distanza percorsa, sopra, il tempo totale trascorso, in mezzo, e il ritmo medio del giro, sotto. Per giro si intende dall’ultima volta che è stato premuto il pulsante “lap”. Si può anche automatizzare la cosa, io ad esempio ho fissato l’autolap ad un chilometro.

Chiaramente chi si alleni con tabelle che richiedono lavori intervallati complessi, o sia un appassionato di dati, si troverà meglio con modelli più completi, che raccolgono e forniscono maggiori informazioni. Viceversa anche un’occhiata all’orologio in cucina all’uscita ed al rientro può essere sufficiente.

L’altro è un braccialetto
roadID su cui sono stati incisi il mio nome e cognome, anno di nascita e numeri telefonici di riferimento. Si toccano tutti i metalli possibili ma può capitare un’emergenza quando si è fuori, ed in genere non si hanno con sé documenti identificativi. Grazie al braccialetto si potrà facilmente risalire all’identità del malcapitato ed avvisare i familiari.

Anche qua, un bigliettino in tasca con i numeri svolge la stessa funzione, per quanto sia meno immediatamente visibile ed il braccialetto bilanci il peso dell’orologio (di nuovo, poca cosa, lo so).

Del resto non sono consigli per gli acquisti, ma solo inviti alla riflessione.

O neanche.

Pista!


45
Dal 1980 sono passati 30 anni, durante la maggior parte dei quali ho speso alcuni giorni alla settimana nei pressi di, o sopra una, pista di atletica. Correndo o facendo correre.

Non l’ho sempre amata, anzi, all’inizio proprio non mi piaceva, per la sofferenza che pensavo rappresentasse.

Ma adesso è un’altra storia, ho cambiato idea sulla sofferenza.

E c’è qualcosa di confortevole in una pista, hai dei riferimenti precisi, e se ti ci sai muovere hai tutte le distanze che ti servono già misurate.

Oppure nessuna, e ci puoi correre intorno finché ne hai voglia, in genere nell’anello di erba che sta tra lei e l’immancabile campo di calcio.

Ci puoi stare con un gruppo disomogeneo, tanto nessuno resterà indietro, e alla fine ti fermi nei pressi della buca delle siepi, a fare quattro chiacchiere.

E dopo tutto questo sono arrivato anche alla conclusione, che forse è solo un inizio, che se ti piace correre, in fondo, dove lo fai non sia poi così importante.

Chissà cosa imparerò nei prossimi 45 anni.

Il grosso paradosso della corsa di resistenza.

Perché alla fine, della corsa si può dire tanto, e se ne dice, ma, tolti tutti gli extra, alla base c'è la sopportazione del disagio, del dolore, della fatica.

Chi corre conosce i sintomi e sviluppa una corteccia più o meno grossa per sopportarli. O smette. Perché, di nuovo, è quello che la corsa è, per la maggior parte del tempo.

Il problema in tutto questo è che il dolore è un segnale di pericolo che il corpo ci invia. Un bel sistema di protezione che avvisa "ehi, se continui così potremmo avere dei problemi".

E la vita di chi si allena è segnata dalla costante ricerca di andare un po' oltre quei limiti percepiti, sperando che siano solo tali, e non reali.

Oltre al disagio/sofferenza per il cercare di andare un po' più forte o lontano della volta precedente c'è anche il segnale di qualcosa che è sulla via della rottura.

Il segnale è chiaro e inequivocabile, "fermati, c’è qualcosa che non va”.

Il tutto in una persona normale avrebbe la conseguenza logica dello stop e attesa che il problema si risolva.

Nel corridore di resistenza, però, la mentalità, l'esercizio, lo scopo ultimo è proprio superare quelli che sono i segnali di disagio. E quindi, spesso, il segnale preinfortunio viene ignorato, perché fa parte della cultura della corsa.

E trovare quell’equilibrio non è facile.

E’ di pochi giorni fa la notizia del ritiro dalle corse di Gebrselassie. Alla conferenza stampa della Maratona di New York (dove si è fermato per un problema al ginocchio) ha detto in lacrime che è il momento di fermarsi. “No more complain”. “Basta lamentarsi”. Non si ferma perché ha problemi fisici, ma perché non vuole più lamentarsene. Una scelta comprensibile per chi abbia fatto una carriera della sopportazione del disagio.

Novembre

Novembre è un mese che ho sempre tollerato solo perché ci cade il mio compleanno.

Da piccoli, si sa, il compleanno è una cosa grossa. E da grandi si resta attaccati alle sensazioni di bambino, quell’imprinting emotivo che ci fa amare luoghi solo perché ci abbiamo trascorso del tempo negli anni della formazione.

Tra piogge a catinelle e impegni extracurricolari si è saltato più di qualche domenica ufficiale, di quelle che di solito vengono riportate quì.

La corsa no, quella è una sorta di seconda pelle, ogni tanto si fa una piccola muta, ma alla fine è sempre lì, una definizione girovaga di un insieme di cose: resistenza, passione, riflessione, evasione, sofferenza, sollievo.

Che alla fine si sintetizzano in un sé percepito: runner.

Non importa se stai correndo o no.

Spesso la corsa è fonte di emozioni che esigono di essere pubblicizzate, altre volte è semplicemente ricettacolo di sfogo o di quieta deambulazione, per cui magari se ne salta il dettaglio su queste pagine.

Così, giusto per fare il punto, in un mese in cui il grosso dell’aspettativa è in genere che passi in fretta.

"Itinerario dei Castelli" - Orsago (TV)

Orsago fu l’inizio di un’avventura che dura tutt’ora, e quindi ogni anno la si festeggia con chi c’era, con chi l’avviò, e con chiunque, alla fine.

Appuntamento imperdibile per molti, che attrae podisti di tutte le estrazioni sociali e familiari, bimbi, nonni, e solito muro umano, impenetrabile, all’ultimo ristoro (mi dicono ci sia roba buona, ma non si vedeva neanche il tavolo).

Percorso misto e piacevole, così come la compagnia.

Ce ne torniamo a casa con una media al chilometro di almeno trenta secondi inferiore a quella (media o puntuale) degli ultimi quattro mesi. Senza che abbia pesato per nulla sul fisico o sulla psiche.

Rispettare le tradizioni paga.

Non va mai sempre peggio

In una recente intervista che ho ascoltato è stato chiesto ad uno scrittore professionista se gli venisse il ‘blocco dello scrittore’.

Lui serafico ha risposto “sì, mi viene regolarmente, ma non credo esista”.

Nel senso che, anche se per una giornata fissi il muro senza apparentemente produrre nulla, quando ti verrà la ‘grande idea’ uno dei motivi sarà proprio che hai trascorso del tempo ruminando sull’argomento, in modo più o meno inconscio.

Io non ho scritto quì per un po’, e ho corso malvolentieri ancora più a lungo, ma non è che sia stato fermo. Ho continuato ad imparare.

Sembra incredibile come un gesto semplice e ripetitivo come la corsa sia fonte di soprese e apprendimento anche dopo trent’anni.

Uno degli insegnamenti classici della corsa di resistenza è che ha volte non hai grosse alternative al tenere duro e continuare ad andare avanti. Non va mai sempre peggio. E dopo un po’, quasi miracolosamente, il mondo che sembrava brutto e cattivo, ridiventa gravido di promesse e auspici.

Non ho mai corso con mp3 e cuffie, lo consideravo impuro, almeno per me, non avevo problemi se lo facevano gli altri.

A mali estremi ho dovuto cedere, e visto che l’alternativa era uscire per venti minuti e tornare a casa intrattabile, ho caricato un paio di podcast, che di solito ascolto mentre sbrigo faccende di casa o passeggio, e sono uscito a correre.

Al di là del fatto che ho finalmente potuto andare oltre quei pochi minuti che riuscivo a fare di solito, ho finalmente afferrato una cosa che sapevo da tempo, ma che non avevo mai completamente realizzato.

Io tendo ad andare molto più forte in gara che in allenamento. Sapevo anche che in gara tendo ad ascoltare le gambe, mentre in allenamento tendo ad ascoltare il respiro, e regolarmi di conseguenza. Non avevo mai fatto due più due, realizzando che, anche in allenamento, con la gente che mi parla nelle orecchie, non posso sentire il respiro, sposto quindi l’attenzione sulle gambe, e vado a ritmi nettamente più forti.

Bum.

Mi son portato il lettore mp3 anche in una recente maratona su strada, ma non ho avuto tempo di accenderlo.

Correvo, come di frequente mi accade, su una base di allenamento equivalente al ghiaccio sottile e già acquoso di un laghetto montano all’inizio di primavera. Ogni movimento sbagliato, ogni distrazione, avrebbe potuto essere fatale, e quindi mi son tenuto le cuffie nelle orecchie ma il suono era quello interno dei check up di sistema.

E devo dire che la prestazione mi ha soddisfatto, con una corrispondenza marcata tra il mio valore relativo del momento ed il tempo finale. Anzi, pure un po’ meglio.

Ho avuto il ‘blocco del podista’ quindi, ma neanch’io credo che esista, si finisce sempre per avanzare.

Marcia Parco Bolda - Santa Lucia di Piave (TV)

Piazzata in un mese meno estiveggiante sarebbe una gara da considerare per abbattere il proprio personale sui 10.000, per due motivi principali: è lunga effettivamente 10 chilometri, misurati con vari strumenti per avere una distanza corretta e rotonda, ed è piatta e scorrevole, in gran parte asfalto.

Alla partenza quindi si spengano le luci, si ruotino le percezioni all’interno e giù il piede sull’acceleratore. Non ci sono panorami a distrarre o superfici tecniche insidiose, solo un lungo nastro sul quale inseguire un nostro io migliore o tentare di sfuggire a paure e tentazioni.

"Raduno dei Gruppi Podistici della Provincia di Treviso" FIASP Trevisando CPT - Sernaglia della Battaglia (TV)

Non me lo ricordavo proprio che a Sernaglia c’è un parco con fiumi che scorrono, piante che ombreggiano e sentieri che si snodano.

Proprio una bella sorpresa, a volte fa bene non avere una grande memoria a medio termine.

La gara da fare sarebbe comunque la 12, o la 6, perché la 22 (in realtà poco più di 20) dopo il bivio si inoltra in aperta campagna, che all’inizio di giugno in pieno sole può essere un problema. Sempre bella, per carità, ma dopo il bosco è difficile appassionarsi ad altro.

Su e zo par el Montegan - Lutrano di Fontanelle

Quella cosa dell’imprinting mi è rimasta impressa. Ogni volta che corro al caldo in piena campagna vengo ribaltato indietro di una quarantina d’anni, quando, bambino, spendevo le mie estati tra vigne e prati. E in questo percorso se ne incontrano.

Gara veloce, nel senso di corsa a ritmi ben superiori a quelli di allenamento, anche quelli veloci, e quindi poca attenzione al panorama o a i ristori. Del resto li conoscevo già entrambi dalle
esperienze passate, sempre buone, e oggi ci sono state solo conferme.

Marcia del donatore e della solidarietà - Conegliano Tv loc. Colnù

Per la prima volta, complice un gruppo coinvolgente, si è corsa la 21km. L’asfalto predomina, salvo un paio di chilometri sterrati, così come paesaggi collinari gravidi di vitigni e panorami appaganti.

Una corsa in cui continui a guardarti intorno e pensare che, sì, in quella casa asrebbe proprio picevole viverci.

Per me si va nella città dolente

Ti guardi in giro ed è un fioccare di articoli e ricerche.

Sembra che le soglie fisiologiche, quelle che per tanti anni abbiamo temuto e rispettato, il cui varcare significava peccato mortale che avrebbe portato al fallimento degli obiettivi podistici, esistano, ma non siano il vero limite della prestazione.

Pare che quello stare sulla soglia, con la paura di quello che c’era oltre, fosse proprio quello. Paura.

E la mente previdente impediva di andare oltre limiti temuti, presunti, subodorati, sospettati.

Prima di finire il glicogeno, prima che scorie dai nomi importanti rendano le nostre fibre vischiose, la mente intercede e ci fa fermare o rallentare.

Marcora, Trabucchi, Fitzgerald, è tutta gente che ne parla, e quello che dicono sembra ragionevole.

In fondo i quattro minuti del miglio sembravano un limite invalicabile, ma non appena Bannister abbatté il muro altri passarono per la breccia. Non avevano a quel punto più o meno lo stesso massimo consumo d’ossigeno di qualche settimana o mese prima?

E tutte quelle volte che non possiamo andare un po’ più forte e poi leggiamo il cartello dell’ultimo chilometro e riusciamo ad aumentare. O quando l’Avversario si avvicina, o quel dannato pastore tedesco sbucato dal nulla. Fosse tutto fisiologico non avremmo speranza, il destino segnato da quattro molecole di ATP e una tonnellata di acidi grassi da frazionare in fretta, ma non c’è mai ossigeno abbastanza.

Solo a Salazar io credevo, uno che passava l’arrivo e da lì lo dovevano portare direttamente in ospedale per rianimarlo. Tutti gli altri, io per primo, la soglia, la mettono dove pensano che sia, e adesso gli scienziati stanno pian piano scoprendo quel velo pietoso.

Marcia del Torchiato - Fregona TV

La pedemontana Vittoriese oggi mi è parsa più gloriosa di sempre.

Un percorso ondulato e boscoso al punto giusto, con aperture improvvise su valli e pianure, una giornata splendida, anche se il caldo alla fine ha chiesto il suo pedaggio e mi ha lasciato un po’ instupidito, ma forse non è proprio colpa/merito del clima.

Nel complesso una prima parte più scorrevole e una seconda con qualche erta più ripida che rallenta il corpo ma lascia comunque correre i pensieri, come è giusto che sia.

28ma Marcia del Refrontolo Passito DOC - Refrontolo TV

E se all’arrivo vedi gente che fino a cinque minuti prima correva in California, Colorado e Nuova Zelanda, terminare con un sorrisone a tutta faccia e gli occhi lucidi di emozione vera, ti rendi conto che vivi in un bel posto.

La pioggia dei giorni e della notte precedenti ha reso il terreno un po’ scivoloso nei tratti campestri, ma quì si apprezza la propriocettività della corsa fangosa tanto quanto la reattività di una superficie omogenea, o la precisione di una piatta e biliardata 10km.

Son sempre i miracoli del corpo in movimento che ci meravigliano, che siano lenti o veloci poco importa, quel che conta è che siano consapevoli, frutto di impegno o forieri di maggiore comprensione di sé stessi e del mondo.

Ed in questo Refrontolo c’è, come si suol dire, e ci accompagna nella fruttuosa campagna, quella che arricchisce le nostre tavole di bevande di spirito e il nostro spirito di serenità.

Marcia dei Brac, Valmareno di Follina TV

Decisamente non una corsa da principianti. I primi chilometri sono un susseguirsi di erte tecniche che mettono alla prova quadricipiti e coordinazione.

Ma se vi si sopravvive, tra l’ottavo e decimo c’è un sentiero in leggero falsopiano che vale tutti gli sforzi fatti per arrivare sin lì, compresi gli anni precedenti di preparazione.

Scorrevole e morbido, una gioia per i sensi.

Quest’anno i soccorritori all’arrivo apparivano anche rilassati e senza grossi impegni, a differenza di anni scorsi in cui sembrava che ogni concorrente arrivasse con una escoriazione.

Campidoglio

La storia del Campidoglio è vera.

Ne ho avuta conferma verso la fine del primo giro del Lago Morto, poco sopra Vittorio Veneto.

Tre oche occupavano la sede stradale e non sono state felici di vedermi, una in particolare mi si è scagliata contro a becco spalancato e aria minacciosa. Nessun segno di timore. Ferocia allo stato puro.

Fortunatamente ho scorto a sinistra il provvidenziale sentierino che porta alla spiaggia, per cui ho evitato un confronto diretto che mi avrebbe probabilmente lasciato spennato.

31ma Correndo Lungo il Piave - Maserada TV

Una delle corse più affollate, a ragione, eppure la prima da tanto tempo in cui ho corso da solo. Negli ultimi mesi tutti le corse un po’ più lunghe sono state in compagnia, mentre in solitaria riuscivo a trascinarmi per mezz’ora, o poco più.

L’equilibrio è sempre importante, e riuscire a correre sia in compagnia che da soli è una forma di equilibrio, sociale e personale.

Gli ultimi 16 km e passa sono scorsi volentieri, tra la certezza di correre a ritmi impensabili in allenamento, qualche apprensione di non riuscire ad arrivare a quella velocità, i tentativi non riusciti di rallentare, il pezzo sempre memorabile nel bosco in mezzo al Piave.

Sarà stata la primavera, il sole, le piante, o semplicemente che se si hanno pazienza e tenacia sufficienti passano anche le crisi più dure

tristezza

Eppure un po’ di tristezza ti assale a leggere un articolo, sulla rivista Correre, che fornisce consigli per passare dalla strada al trail.

Presuppone che ci sia gente che è sempre stata da una parte (che c’è, e forse è la parte ancora più triste). Non ne sto facendo una questione contro Correre, rivista che apprezzavo anche prima degli ultimi, sostanziali, miglioramenti.

Sarà la fortuna di essere cresciuto podisticamente nella sinistra Piave Trevigiana, dove ad ogni garetta domenicale ti trovi fango, asfalto, colline e tutto quello che può esserci tra te e il pianeta su cui vivi, ma io non riesco neanche ad immaginare che qualcuno abbia corso tutta la sua vita sempre sull’asfalto, o sempre fuori.

E, per carità, a uno può piacere più la velocità, sicurezza, omogeneità dell’asfalto, la precisione della pista, la libertà e il contatto con la natura dei sentieri. Son gusti, non si discutono.

Ma per migliorare (che può voler dire andare più veloci, ma anche solo gustare meglio il passatempo che è la corsa) non si può prescindere dal differenziare gli stimoli.

E allora mi va bene che ci si genufletta di fronte alle tabelle che religiosamente forniscono le giuste dosi di veloce, medio e lungo, ma suggerisco anche un po’ di rispetto per i nostri propriocettori, indispensabili lettori ed interpreti di quello che viene a contatto con noi.

Qualche metro sul fango, sulla sabbia, in pista, sull’asfalto, l’erba, la roccia, il cemento migliorano la capacità di sfruttare poi al meglio la nostra superficie preferita.