Una Storia di Viaggi
12/07/09 22:35 Filed in: corsi e ricorsi
Una storia di viaggi che avevo scritto qualche tempo fa e che, ironia della sorte, non è andata da nessuna parte:
“Tu corri? ”
“Sì”
“Hai fatto la Maratona di New York? ”
“No, tu hai mai fatto l’allenamento di gruppo del sabato mattina? ”
La frase finale non l’ho mai pronunciata, fino ad oggi, mentre le altre due domande mi sono state poste molte volte.
Con quel misto di entusiasmo genuino e capacità imprenditoriali, che caratterizzano la cultura americana, la Maratona di New York è diventata il simbolo della Corsa per chi non la pratichi, e anche per molti che la praticano, ed ha anche fatto da motore ad un fenomento che non esisteva fino ad alcuni anni fa: il turismo con il pretesto della corsa, o viceversa.
Ma non è di questo che volevo parlare (come sempre, quando mi chiedono se ho mai corso la Maratona di New York), volevo parlare del mio allenamento di gruppo del sabato mattina, “al campo”, perché è il viaggio più lungo che faccio durante una settimana qualsiasi.
O dovrei dire, i viaggi.
Serena, mia moglie, mi deposita fisicamente all’ingresso della pista di atletica verso le nove e trenta, e lì si inizia il riscaldamento, in genere tra i trenta e i quarantacinque minuti di corsa lenta. Sembrano tanti, ma chi li conta se stai chiacchierando del più e del meno, e creando quei legami che solo lo svolgere un’attività faticosa assieme cementa. E il correre in tondo? Non è noioso? No, a me piace correre, mi piace il gesto semplice e allo stesso tempo complesso, devi curare l’appoggio del piede, l’assetto del corpo, la respirazione, persino la contrazione dei muscoli facciali.
E se ti ci metti ne hai di strada da fare. Finché si parla di appoggio del piede e assetto, si hanno tutto sommato dei riferimenti fisici cui appoggiarsi. Ma quando si entra nel rilassarsi iniziano i dubbi e le difficoltà. Come ti rendi conto che hai le spalle rigide? o la caviglia della gamba libera non abbastanza sciolta? Dopo un bel po’ di chilometri cominci a capire, ma tante volte devi lavorare al contrario, contraendo le spalle, per poi poterle rilassare, chiudendo i pugni per poi lasciar andare le mani, e, perché no, improvvisando qualche smorfia con la faccia prima di liberarla dal giogo dello sguardo corrucciato da duro, utile magari al lavoro, ma non molto efficiente quando si cerchi di risparmiare ogni molecola di carburante disponibile.
Il tutto mentre stai commentando i recenti exploit podistici degli atleti d’elite, o semplicemente scambiando aneddoti sulla settimana appena trascorsa. Il tutto in un luogo in cui hai cominciato a correre, quasi trent’anni fa.
Probabilmente non è classificabile come viaggio esotico, decisamente potresti correrci ad occhi chiusi, il tombino alla curva dei trecento sul giro interno, la barriera delle siepi che restringe il passaggio, le due panchine del calcio, e di nuovo. Ma chi l’ha detto che il viaggio debba per forza essere esotico, o debba per forza comportare uno spostamento fisico di una certa entità. E il tempo? la memoria? Le centinaia di persone che sono passate di lì e hanno condiviso con te uno o più giri all’interno della pista? Periodicamente qualcuno ricompare, e via ad aggiornarti su quello che è successo nei mesi, a volte anni, di assenza. Il campo è sempre lì, un centro culturale e umano.
Mi ricorda quel vecchietto, citato da un mio amico, che ogni mattina scivolava dentro un’area di sosta autostradale in Francia, con la sua sedia pieghevole. Si accomodava lì e chiacchierava con tutti quelli che si fermavano. Non era mai andato più in là del suo paesello e di quel parcheggio, ma conosceva un po’ tutto il mondo, perché aveva la curiosità e l’anima del viaggiatore.
Ma la corsa del sabato mattina è anche Allenamento, per cui, finito il riscaldamento si sospende la socializzazione, l’occhio si fessura e inizia il lavoro specifico, magari delle variazioni, in pista.
Si varcano soglie, si entra in mondo dove non si riesce a pronunciare più di qualche parola alla volta, neanche consecutivamente. Ma se si può si evita pure quello. Capita di fare venti minuti silenziosi in pista, senza contare i giri, chi ne ha voglia quando tutto il tuo corpo, la volontà, e lo spirito, sono uniti per uno scopo: avanzare.
E, di nuovo, nell’ovale rosso e bianco, parti e arrivi più o meno nello stesso punto, ma quanta strada si può fare dentro di noi, attingendo a riserve che non si sapeva di avere, o alleggerendo il passo per limitare il consumo, una volta che si vede il fondo buio di quei serbatoi. E che dire di quando si scava per trovare qualche risorsa in più, girando a destra e manca, dentro e fuori stanze che spaventa aprire.
Un’altra volta, in un tremila, si parte coscienti che il ritmo richiesto è troppo veloce per le nostre possibilità. Ma si parte, siamo quì, anche, per esplorare i nostri limiti, e quindi può capitare di trovarli. Uno, due, tre giri. Qualcuno parla, un soffio veloce, “mancano due giri”. Ti stizzisci, non siamo neanche a metà, e non vuoi realizzare quanto manchi, ma solo completare la più piccola unità di lavoro cui riesci a pensare. All’inizio è un giro, poi si passa a mezzo, all’angolo da raggiungere, il singolo passo. Quando non puoi più ridurre sai che hai finito, ma questa volta non accade, anzi, riesci ad aumentare leggermente e finire in progressione. Poi i soliti primi metri del dopo, in cui cerchi tutta l’aria che puoi, ma già alla fine della curva trovi che la corsetta del recupero sembra quasi confortevole, fino alla prossima ripetuta.
E passa anche il lavoro duro, passa sempre, e si torna alla corsa lenta finale per scaricare, togliersi le scorie, pagare i debiti di pochi minuti prima. Il fiato è tornato, qualcuno magari parla, ma è più un condividere in silenzio uno sforzo comune.
L’allenamento è finito, ma la pista è a dieci chilometri da casa, ricordate? Mi avevano depositato lì all'inizio, e quando posso torno a piedi. Nostalgia di un passato mai stato. Molti dei fondisti di grande livello infatti hanno in comune una infanzia di povertà e di scuole lontane da casa, raggiunte spesso a piedi, correndo. Un economico mezzo di locomozione, l'unico che potevano permettersi.
Io ho avuto un’infanzia felice e fortunata, mi portavano a scuola in pulmino. Ho un ricordo di mattinate invernali trascorse ad aspettare il mezzo di trasporto, giocando al “Campanon”: saltelli con un piede su un percorso disegnato a terra con il gesso, alla caccia di un sasso segnaposto lanciato poco prima. Una benedizione per la coordinazione occhio-mano, occhio-piede, generale. Aerobicamente: un disastro. Ma è troppo tardi per lamentarsi (non sarebbe mai il momento giusto per farlo, in realtà ), e quella coordinazione ha fatto comodo molte volte. Ciò non toglie che capiti di fantasticare di come sarebbe andata se il viaggio per il quotidiano impegno giovanile fosse avvenuto correndo, magari con qualche deviazione inattesa, in fondo era tutta campagna dove, adesso, ti diverti a disegnare complicate evoluzioni per raggiungere il chilometraggio prefissato dalla tabella.
Tornando ai miei viaggi del sabato mattina, si diceva del ritorno, che è quello più letterale. Novello bambino, cresciuto e, volontariamente, senza altro mezzo di trasporto, mi avvio verso casa. Il percorso è quasi tutto lungo l’argine erboso di un fiume di pianura. E su quelle anse cambia proprio la visione della corsa, non è più una preparazione, un qualcosa che stia facendo per scelta in vista di un obiettivo. Sto semplicemente andando a casa, utilizzando le mie gambe, se rallento troppo ci metto due ore, ma non lo sento come una costrizione, le lascio andare e pian piano trovo il punto di equilibrio, che quarda caso assomiglia al ritmo delle gare lunghe.
Il respiro è profondo ma non affannoso. I pensieri sono liberi di spostarsi, andando a sistemare un paio dubbi su una relazione di lavoro, perdendosi nell’immancabile curva del fiume dove l’acqua rallenta per poi continuare la sua, di corsa, scrivendo una storia tipo questa, con le parole che arrivano e ripartono in un viaggio continuo di cui a volte sono solo un passeggero.
Ponderi quanto sarebbe aumentato il tuo massimo consumo di ossigeno se l’avessi fatto ogni giorno dai 6 ai 15 anni, realizzi che probabilmente avresti odiato ogni minuto di quella cosa che ti impediva di giocare con i tuoi amici, mentre aspettavi il minibus.
Forse non avresti capito allora, e ti saresti giocato la comprensione di oggi. Forse. E’ un altro viaggio, in fondo, in un mondo parallelo e più aerobico, chi lo sa.
Intanto, senza metterci la mia fantasia, un tempo sufficientemente lungo di corsa scatena reazioni chimiche che somigliano agli effetti della droga, un “trip”, che poi è Inglese per viaggio, e che sembra solo recentemente siano riusciti a dimostrare scientificamente. Che noi podisti era da anni che glielo dicevamo. Le Endorfine, le sentivamo in circolo. E migliaia di mogli, mariti, mamme, compagni e compagne di vita possono testimoniare di sbalzi d’umore, nervosismi, e vere e proprie crisi di astinenza causa infortunio. Quando la dose quotidiana non è stata ottenuta. Che un po’ ti fa pensare, ma poi vai a fare una corsa e ti rilassi, in fondo è meglio una dipendenza da fondo medio che una, ben più costosa, da “speed”.
Ma prima di accorgersene, o prima che svaniscano gli effetti, si torna agli affari, gli ultimi due chilometri sono su asfalto, la casa è vicina (sembra che i cavalli da corsa accelerino quando si avvicina la stalla) e poi è sempre una buona politica finire in progressione, alla rotonda sono cinquecento, il mio asilo, trecento, duecento, cento, la mano destra va inconsciamente a fermare il cronometro. L’arrivo l’ho fissato ad un centinaio di metri da casa, così dò un’occhiata alle caprette del vicino (come vanno in salita, loro. Un po’ d’invidia. Ogni volta), cammino piano per gli ultimi passi, e torno gradualmente alla realtà.
I viaggi sono finiti, per oggi.
“Tu corri? ”
“Sì”
“Hai fatto la Maratona di New York? ”
“No, tu hai mai fatto l’allenamento di gruppo del sabato mattina? ”
La frase finale non l’ho mai pronunciata, fino ad oggi, mentre le altre due domande mi sono state poste molte volte.
Con quel misto di entusiasmo genuino e capacità imprenditoriali, che caratterizzano la cultura americana, la Maratona di New York è diventata il simbolo della Corsa per chi non la pratichi, e anche per molti che la praticano, ed ha anche fatto da motore ad un fenomento che non esisteva fino ad alcuni anni fa: il turismo con il pretesto della corsa, o viceversa.
Ma non è di questo che volevo parlare (come sempre, quando mi chiedono se ho mai corso la Maratona di New York), volevo parlare del mio allenamento di gruppo del sabato mattina, “al campo”, perché è il viaggio più lungo che faccio durante una settimana qualsiasi.
O dovrei dire, i viaggi.
Serena, mia moglie, mi deposita fisicamente all’ingresso della pista di atletica verso le nove e trenta, e lì si inizia il riscaldamento, in genere tra i trenta e i quarantacinque minuti di corsa lenta. Sembrano tanti, ma chi li conta se stai chiacchierando del più e del meno, e creando quei legami che solo lo svolgere un’attività faticosa assieme cementa. E il correre in tondo? Non è noioso? No, a me piace correre, mi piace il gesto semplice e allo stesso tempo complesso, devi curare l’appoggio del piede, l’assetto del corpo, la respirazione, persino la contrazione dei muscoli facciali.
E se ti ci metti ne hai di strada da fare. Finché si parla di appoggio del piede e assetto, si hanno tutto sommato dei riferimenti fisici cui appoggiarsi. Ma quando si entra nel rilassarsi iniziano i dubbi e le difficoltà. Come ti rendi conto che hai le spalle rigide? o la caviglia della gamba libera non abbastanza sciolta? Dopo un bel po’ di chilometri cominci a capire, ma tante volte devi lavorare al contrario, contraendo le spalle, per poi poterle rilassare, chiudendo i pugni per poi lasciar andare le mani, e, perché no, improvvisando qualche smorfia con la faccia prima di liberarla dal giogo dello sguardo corrucciato da duro, utile magari al lavoro, ma non molto efficiente quando si cerchi di risparmiare ogni molecola di carburante disponibile.
Il tutto mentre stai commentando i recenti exploit podistici degli atleti d’elite, o semplicemente scambiando aneddoti sulla settimana appena trascorsa. Il tutto in un luogo in cui hai cominciato a correre, quasi trent’anni fa.
Probabilmente non è classificabile come viaggio esotico, decisamente potresti correrci ad occhi chiusi, il tombino alla curva dei trecento sul giro interno, la barriera delle siepi che restringe il passaggio, le due panchine del calcio, e di nuovo. Ma chi l’ha detto che il viaggio debba per forza essere esotico, o debba per forza comportare uno spostamento fisico di una certa entità. E il tempo? la memoria? Le centinaia di persone che sono passate di lì e hanno condiviso con te uno o più giri all’interno della pista? Periodicamente qualcuno ricompare, e via ad aggiornarti su quello che è successo nei mesi, a volte anni, di assenza. Il campo è sempre lì, un centro culturale e umano.
Mi ricorda quel vecchietto, citato da un mio amico, che ogni mattina scivolava dentro un’area di sosta autostradale in Francia, con la sua sedia pieghevole. Si accomodava lì e chiacchierava con tutti quelli che si fermavano. Non era mai andato più in là del suo paesello e di quel parcheggio, ma conosceva un po’ tutto il mondo, perché aveva la curiosità e l’anima del viaggiatore.
Ma la corsa del sabato mattina è anche Allenamento, per cui, finito il riscaldamento si sospende la socializzazione, l’occhio si fessura e inizia il lavoro specifico, magari delle variazioni, in pista.
Si varcano soglie, si entra in mondo dove non si riesce a pronunciare più di qualche parola alla volta, neanche consecutivamente. Ma se si può si evita pure quello. Capita di fare venti minuti silenziosi in pista, senza contare i giri, chi ne ha voglia quando tutto il tuo corpo, la volontà, e lo spirito, sono uniti per uno scopo: avanzare.
E, di nuovo, nell’ovale rosso e bianco, parti e arrivi più o meno nello stesso punto, ma quanta strada si può fare dentro di noi, attingendo a riserve che non si sapeva di avere, o alleggerendo il passo per limitare il consumo, una volta che si vede il fondo buio di quei serbatoi. E che dire di quando si scava per trovare qualche risorsa in più, girando a destra e manca, dentro e fuori stanze che spaventa aprire.
Un’altra volta, in un tremila, si parte coscienti che il ritmo richiesto è troppo veloce per le nostre possibilità. Ma si parte, siamo quì, anche, per esplorare i nostri limiti, e quindi può capitare di trovarli. Uno, due, tre giri. Qualcuno parla, un soffio veloce, “mancano due giri”. Ti stizzisci, non siamo neanche a metà, e non vuoi realizzare quanto manchi, ma solo completare la più piccola unità di lavoro cui riesci a pensare. All’inizio è un giro, poi si passa a mezzo, all’angolo da raggiungere, il singolo passo. Quando non puoi più ridurre sai che hai finito, ma questa volta non accade, anzi, riesci ad aumentare leggermente e finire in progressione. Poi i soliti primi metri del dopo, in cui cerchi tutta l’aria che puoi, ma già alla fine della curva trovi che la corsetta del recupero sembra quasi confortevole, fino alla prossima ripetuta.
E passa anche il lavoro duro, passa sempre, e si torna alla corsa lenta finale per scaricare, togliersi le scorie, pagare i debiti di pochi minuti prima. Il fiato è tornato, qualcuno magari parla, ma è più un condividere in silenzio uno sforzo comune.
L’allenamento è finito, ma la pista è a dieci chilometri da casa, ricordate? Mi avevano depositato lì all'inizio, e quando posso torno a piedi. Nostalgia di un passato mai stato. Molti dei fondisti di grande livello infatti hanno in comune una infanzia di povertà e di scuole lontane da casa, raggiunte spesso a piedi, correndo. Un economico mezzo di locomozione, l'unico che potevano permettersi.
Io ho avuto un’infanzia felice e fortunata, mi portavano a scuola in pulmino. Ho un ricordo di mattinate invernali trascorse ad aspettare il mezzo di trasporto, giocando al “Campanon”: saltelli con un piede su un percorso disegnato a terra con il gesso, alla caccia di un sasso segnaposto lanciato poco prima. Una benedizione per la coordinazione occhio-mano, occhio-piede, generale. Aerobicamente: un disastro. Ma è troppo tardi per lamentarsi (non sarebbe mai il momento giusto per farlo, in realtà ), e quella coordinazione ha fatto comodo molte volte. Ciò non toglie che capiti di fantasticare di come sarebbe andata se il viaggio per il quotidiano impegno giovanile fosse avvenuto correndo, magari con qualche deviazione inattesa, in fondo era tutta campagna dove, adesso, ti diverti a disegnare complicate evoluzioni per raggiungere il chilometraggio prefissato dalla tabella.
Tornando ai miei viaggi del sabato mattina, si diceva del ritorno, che è quello più letterale. Novello bambino, cresciuto e, volontariamente, senza altro mezzo di trasporto, mi avvio verso casa. Il percorso è quasi tutto lungo l’argine erboso di un fiume di pianura. E su quelle anse cambia proprio la visione della corsa, non è più una preparazione, un qualcosa che stia facendo per scelta in vista di un obiettivo. Sto semplicemente andando a casa, utilizzando le mie gambe, se rallento troppo ci metto due ore, ma non lo sento come una costrizione, le lascio andare e pian piano trovo il punto di equilibrio, che quarda caso assomiglia al ritmo delle gare lunghe.
Il respiro è profondo ma non affannoso. I pensieri sono liberi di spostarsi, andando a sistemare un paio dubbi su una relazione di lavoro, perdendosi nell’immancabile curva del fiume dove l’acqua rallenta per poi continuare la sua, di corsa, scrivendo una storia tipo questa, con le parole che arrivano e ripartono in un viaggio continuo di cui a volte sono solo un passeggero.
Ponderi quanto sarebbe aumentato il tuo massimo consumo di ossigeno se l’avessi fatto ogni giorno dai 6 ai 15 anni, realizzi che probabilmente avresti odiato ogni minuto di quella cosa che ti impediva di giocare con i tuoi amici, mentre aspettavi il minibus.
Forse non avresti capito allora, e ti saresti giocato la comprensione di oggi. Forse. E’ un altro viaggio, in fondo, in un mondo parallelo e più aerobico, chi lo sa.
Intanto, senza metterci la mia fantasia, un tempo sufficientemente lungo di corsa scatena reazioni chimiche che somigliano agli effetti della droga, un “trip”, che poi è Inglese per viaggio, e che sembra solo recentemente siano riusciti a dimostrare scientificamente. Che noi podisti era da anni che glielo dicevamo. Le Endorfine, le sentivamo in circolo. E migliaia di mogli, mariti, mamme, compagni e compagne di vita possono testimoniare di sbalzi d’umore, nervosismi, e vere e proprie crisi di astinenza causa infortunio. Quando la dose quotidiana non è stata ottenuta. Che un po’ ti fa pensare, ma poi vai a fare una corsa e ti rilassi, in fondo è meglio una dipendenza da fondo medio che una, ben più costosa, da “speed”.
Ma prima di accorgersene, o prima che svaniscano gli effetti, si torna agli affari, gli ultimi due chilometri sono su asfalto, la casa è vicina (sembra che i cavalli da corsa accelerino quando si avvicina la stalla) e poi è sempre una buona politica finire in progressione, alla rotonda sono cinquecento, il mio asilo, trecento, duecento, cento, la mano destra va inconsciamente a fermare il cronometro. L’arrivo l’ho fissato ad un centinaio di metri da casa, così dò un’occhiata alle caprette del vicino (come vanno in salita, loro. Un po’ d’invidia. Ogni volta), cammino piano per gli ultimi passi, e torno gradualmente alla realtà.
I viaggi sono finiti, per oggi.