il personale
04/04/06 10:36 Filed in: cosa vuoi fare da grande?
Uno dei grandi miti.
Estensivamente è la nostra migliore prestazione personale. E' un punto di riferimento, una espressione del meglio che siamo riusciti a fare, per qualcuno è anche espressione di sé all'interno di una scala di valori rappresentata dai personali di tutti gli altri (vedi favoletta per dettagli).
Di fatto è un punto di riferimento che conferma il risultato del lavoro svolto, una specie di patente dell'impegno.
Ho visto gente al campo esprimere soddisfazione per aver terminato una maratona in 3h20', senza allenamento, "Pensa se mi fossi allenato".
Senza scomodare la parabola dei talenti tale affermazione è stata subito freddata da un "se arrivasse quì Tergat dicendo che ha fatto 3 ore senza allenarsi pensi che gli diremmo 'bravo'? Gli diremmo 'mona'* allenati e vedi quello che riesci a fare invece "
Perché in effetti il fascino di sapere fino a dove si riesce ad arrivare è innegabile. L'idea di aver lavorato mesi, e dato il proprio massimo, dà anche un senso di realizzazione, di raggiungimento di un obiettivo concreto.
In tempi in cui i confini delle nostre prestazioni nella vita sono piuttosto indefiniti è un simpatico aiuto.
Questo vale in generale, e ancora di più tra gli amatori, per i quali il gareggiare per un posto in classifica non ha poi questo grande significato e, tolti gli avversari personali, lascia poco per capire se si è fatto bene o male.
A livello agonistico la situazione è, a mio avviso, diversa. Il perseguimento a tutti i costi del personale, considerato come espressione del proprio valore di atleta, invece del piazzamento, può portare a delle conseguenze spiacevoli.
Esempio: due saltatrici in lungo.
A sta inseguendo da tempo il personale senza fortuna, è infatti ferma a 5m32 ma sente di valere di più.
B non si cura di quanto vale perché lei gareggia per vincere, al momento ha fatto 5m28.
A se ne frega degli altri, lei vuole fare il personale anche se arriva ultima.
Per B basta vincere, anche se fa 4 metri se ne frega.
Arriva il giorno speciale, vento a favore ma entro i limiti, clima perfetto.
A, al primo salto, plana a 5m54 ed è felice. Da quel momento in poi la gara per lei è finita, Qualche nullo, ma comunque non c'è più con la testa.
B sembra un mastino dei cartoni animati. E' assatanata e all'ultimo salto, dopo una gara in crescita atterra a 5m60, personale (ma se ne frega), e vittoria, che era quello che le interessava.
Con questo cosa volevo dire?
Che il personale è un punto di riferimento traditore. Se ne diventiamo schiavi ci può far del male.
All'amatore che lo identifica con sé stesso e non una sintesi del proprio lavoro, può togliere la soddisfazione e l'arricchimento della corsa, inseguendo numeri invece che utilizzandoli come amici che indirizzano. E non parliamo della malaugurata ipotesi in cui si inizi ad invecchiare (ci sono comunque le tabelle di comparazione per fasce d'età, se proprio non si riesce a superare il trauma)
All'agonista che lo identifica con il proprio valore atletico può essere alibi per rifuggire l'agone vero che nel suo caso starebbe nel confronto con gli altri.
* mona: tipico epiteto veneto assimilabile a 'idiota', 'babbeo', in italiano.
Estensivamente è la nostra migliore prestazione personale. E' un punto di riferimento, una espressione del meglio che siamo riusciti a fare, per qualcuno è anche espressione di sé all'interno di una scala di valori rappresentata dai personali di tutti gli altri (vedi favoletta per dettagli).
Di fatto è un punto di riferimento che conferma il risultato del lavoro svolto, una specie di patente dell'impegno.
Ho visto gente al campo esprimere soddisfazione per aver terminato una maratona in 3h20', senza allenamento, "Pensa se mi fossi allenato".
Senza scomodare la parabola dei talenti tale affermazione è stata subito freddata da un "se arrivasse quì Tergat dicendo che ha fatto 3 ore senza allenarsi pensi che gli diremmo 'bravo'? Gli diremmo 'mona'* allenati e vedi quello che riesci a fare invece "
Perché in effetti il fascino di sapere fino a dove si riesce ad arrivare è innegabile. L'idea di aver lavorato mesi, e dato il proprio massimo, dà anche un senso di realizzazione, di raggiungimento di un obiettivo concreto.
In tempi in cui i confini delle nostre prestazioni nella vita sono piuttosto indefiniti è un simpatico aiuto.
Questo vale in generale, e ancora di più tra gli amatori, per i quali il gareggiare per un posto in classifica non ha poi questo grande significato e, tolti gli avversari personali, lascia poco per capire se si è fatto bene o male.
A livello agonistico la situazione è, a mio avviso, diversa. Il perseguimento a tutti i costi del personale, considerato come espressione del proprio valore di atleta, invece del piazzamento, può portare a delle conseguenze spiacevoli.
Esempio: due saltatrici in lungo.
A sta inseguendo da tempo il personale senza fortuna, è infatti ferma a 5m32 ma sente di valere di più.
B non si cura di quanto vale perché lei gareggia per vincere, al momento ha fatto 5m28.
A se ne frega degli altri, lei vuole fare il personale anche se arriva ultima.
Per B basta vincere, anche se fa 4 metri se ne frega.
Arriva il giorno speciale, vento a favore ma entro i limiti, clima perfetto.
A, al primo salto, plana a 5m54 ed è felice. Da quel momento in poi la gara per lei è finita, Qualche nullo, ma comunque non c'è più con la testa.
B sembra un mastino dei cartoni animati. E' assatanata e all'ultimo salto, dopo una gara in crescita atterra a 5m60, personale (ma se ne frega), e vittoria, che era quello che le interessava.
Con questo cosa volevo dire?
Che il personale è un punto di riferimento traditore. Se ne diventiamo schiavi ci può far del male.
All'amatore che lo identifica con sé stesso e non una sintesi del proprio lavoro, può togliere la soddisfazione e l'arricchimento della corsa, inseguendo numeri invece che utilizzandoli come amici che indirizzano. E non parliamo della malaugurata ipotesi in cui si inizi ad invecchiare (ci sono comunque le tabelle di comparazione per fasce d'età, se proprio non si riesce a superare il trauma)
All'agonista che lo identifica con il proprio valore atletico può essere alibi per rifuggire l'agone vero che nel suo caso starebbe nel confronto con gli altri.
* mona: tipico epiteto veneto assimilabile a 'idiota', 'babbeo', in italiano.